“La notte fra il 14 e il 15 aprile del 1912, mentre il transatlantico Titanic affondava senza aver terminato il viaggio inaugurale, uno dei passeggeri scese nella sua cabina di prima classe, indossò uno smoking e risalì sul ponte.
Invece di cercare di salvarsi, si accese un sigaro e attese di morire.”
E…
Ecco uno di quegli incipit che ti fanno capire che sei fregato (di incipit – di film – ho parlato da poco anche su Trashic). Che “ciao mondo, questa storia mi chiama, riemergerò solo quando l’ho finita”.
Guzman aveva un metodo per adescare i suoi spettatori. Gli bastava sedersi davanti a uno sconosciuto, accendere un sigaro e, quasi di punto in bianco, attaccare a raccontare. All’inizio i prescelti erano spaesati, ma subito venivano accalappiati dalle prime battute della storia e dimenticavano l’imbarazzo. Erano in trappola. […]
Con un sigaro fra le dita, Guzman creava per loro un gioco d’inganni. Si lasciava attraversare da quella bruma saporosa e stuzzicava il loro desiderio. L’aria scura dentro la sua bocca scivolava morbida e frusciante come velluto, si fermava un piccolissimo attimo, in attesa, e poi tornava fuori con le sembianze di un fantasma. E svaniva.
Così è stato. Questo libro mi è stato consigliato da qualcuno di cui mi fido molto, avevo grandi aspettative, che sono state confermate. Da tempo non rimanevo così inchiodata a un libro. Per fortuna è breve, perché non sono riuscita a chiudere il kindle prima di averlo finito. Alle 4 di mattina.
Come un artigiano, Guzman cesellava frasi, sceglieva sinonimi, modificava ritmo e musicalità. Spesso era il pubblico a suggerirgli le variazioni necessarie, perché si accorgeva dalle reazioni delle loro facce se un passaggio era privo di mordente oppure se un colpo di scena era davvero efficace. «Io sono l’ultimo aedo», diceva di se stesso.
La trama la trovate ovunque, ma non può essere esaustiva. Un medico al fronte, salva vite ma ne coglie l’inutilità. Non fa altro che restituire carne al macello. Per resistere colleziona bellezza, sotto forma di parole, le ultime parole dei moribondi. Per questo accetta l’incarico di cercare di far parlare il prigioniero. Da una parte spera di salvare finalmente qualche vita, dall’altra è attratto dalla sua storia. Il prigioniero, da parte sua, sa che le sue parole troveranno eco nell’anima del dottore. A lui affida una storia, catturandolo con un altro incipit:
Quindi sfregò uno dei fiammiferi sulla parete di roccia che aveva accanto e se lo portò alle labbra, proteggendo la preziosa fiamma con il palmo. Jacob Roumann vide parte del suo volto apparire in una corolla gialla. La barba lunga, le rughe intorno agli occhi, il profilo di un naso aquilino – nient’altro.
«Questa storia comincia con un fiammifero», disse l’italiano. «È breve e fragile la vita di un fiammifero, come quella di tutti noi.» Soffiò sulla fiamma e il suo volto si dissolse in un rivolo di fumo. «Uno spirito nero sale in cielo e svanisce in un odore dolciastro. Il ricordo vive ancora per qualche minuto, dentro il tabacco.»
Jacob Roumann tornò a sedersi al tavolo. «Quali sono le tre domande?»
«Chi è Guzman? Chi sono io? E chi era l’uomo che fumava sul Titanic?»
La forza magnetica di questo libro è proprio questa. È una storia incastonata dentro l’altra, come in un gioco di scatole cinesi. Ognuna ha un incipit che ti incatena. Così vuoi leggere ancora, sapere chi è in realtà il prigioniero, cosa ha a che fare con il magnetico Guzman. Con lui vuoi partire per conoscere Madame Li – l’ermafrodito – nella sua lavanderia nel cuore di Marsiglia, scoprire il nome della bella figlia dell’ambasciatore spagnolo, con lei ballare quel tango a Parigi, per scoprire il segreto delle montagne che cantano, e con esso svelare il mistero dell’amore. Assaggiare ogni mozzicone del porto di Marsiglia per cercare di indovinarne le storie, appese all’ultimo filo di fumo, che trascina con sé un po’ dell’anima di chi l’ha fumato. Scoprire la storia del sigaro d’argento e della tempesta senza vento del Golfo del Bengala. La storia di Eva Mòlnar:
Il patto che Eva Mòlnar propose a Guzman era molto semplice.
«Mi seguirai nei miei viaggi e ascolterai la storia della mia vita, e ti impegnerai a raccontarla quando sarò morta. In cambio – visto che non ho messo al mondo marmocchi e non ho avuto la sventura di sposarmi – ti nominerò erede universale.»
«Potrei anche non trovare interessante la storia della vostra vita, signora Mòlnar. Oppure adesso potrei dirvi di sì e, quando sarete morta, decidere di dimenticare tutto quanto.»
«Potresti. Ma non lo farai.»
«Come fate a esserne così sicura?»
«Perché ho attraversato indenne quasi un secolo, ho visto cose, collezionato imprese e amato donne che tu non immagini nemmeno, ragazzo.»
Ogni storia è un nuovo viaggio.
Ora. Se vi dico che tutte queste storie meravigliose sono racchiuse in 170 pagine?
Un libro piccolo ma denso, scritto in una lingua ricca e ammaliante. Un libro che è un insieme di storie e al tempo stesso quasi un manuale di narrazione.
Aveva calcolato che al cliente di solito occorrevano fra i cinque e i dieci secondi per superare l’iniziale smarrimento e accennare una protesta, perciò aveva solo quel breve intervallo per catturare la sua attenzione. L’attacco delle storie era fondamentale – come il direttore che, all’inizio del concerto, con un solo gesto deve conferire simultaneità all’orchestra, così lui doveva esordire con una frase che fulminasse.
Sulla scia di questo libro ho letto anche le altre opere di Donato Carrisi, 4 thriller che ti gelano il sangue e ti conducono a camminare in bilico sul labile confine fra bene e male, in equilibrio sulla curva del tao fra il bianco e il nero. Guardi il buio, e il buio ti chiama.
Cristina says
Mannaggia a te che mi consigli i libri! Ho fatto tardi per finire “L’ipotesi del male” e stamattina non ho sentito la sveglia……